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Digressione XV
Che cosa Dino Provenzal, commentatore della Commedia, intenda
per "profondo mistero" e "grazia divina"
Su quello che Dino Provenzal pare intenda per "profondo mistero" e "grazia divina" nel suo commento alle ultime parole della Commedia. (Riferimento: I-2.2.6, nota 1)Cerchiamo di interpretare i due concetti, non senza grande rispetto innanzi a tali temi. Dunque:
Il profondo mistero. Con queste parole il Provenzal si riferisce in particolare alle parole di Dante "veder volea come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova" (Par., XXXIII, 137-138). Più precisamente si tratta di questo:
Dante è già pervaso dal lume divino, ma cercando di penetrar proprio in fondo alla fonte della luce per capire l’Ultima Cosa, non ci riesce ancora. Ma si osservi qui che per "l’Ultima Cosa" non s’intende una vaga idea di qualcosa di misterioso o di "divino", bensì un complesso intrecciato di forme simboliche che si armonizzano fra di loro. In effetti, Dante è ben esatto nel descrivere quello che vede in questa che rappresenta la parte finale di tutta la sua visione "ultra quam nihil". Insomma, in questo contesto "capire l’Ultima Cosa" equivale all’atto preciso di capire come una forma circolare della persona del figlio (Gesù), forma che appartiene alla trinità di tre cerchi lucenti apparsi a Dante nella chiarezza della fonte divina, possa nello stesso tempo configurarsi alla forma umana. Però, anche tale spiegazione può sembrare un po’ oscura, per cui pensiamo sia bene fare un riassunto dei passi chiave, usando le parole di Dante stesso. Ecco dunque i passi più importanti del momento (Par., XXXIII, 115-139): I tre cerchi: "Nella profonda e chiara sussistenza / dell’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza" (vv. 115-117);La grazia divina. Per la "grazia divina" che tocca a Dante di ricevere nel momento del "fulgore" e che lo aiuta a "cernere Deum", cfr. ciò che San Tommaso dice in materia (già citato in I-2.2.6, punto B2): il cerchio della persona del figlio: "e ’l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri" (vv. 119-120);
Dante vede una forma umana configurarsi man mano al cerchio del figlio: "Quella circulazion ... dentro da sé ... mi parve pinta della nostra effige" (vv. 127-131);
Dante vuole capire l’armonia perfetta tra la forma umana e il cerchio del figlio: "veder volea [io] come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova" (vv. 137-138);
ma non ci riesce: "ma non eran da ciò le proprie penne" (v. 139). Poi viene il fulgore illuminatore ("se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne" (vv. 140-141)).
Cum igitur virtus naturalis intellectus creati non sufficiat ad Dei essentiam videndam ... oportet quod ex divina gratia superaccrescat ei virtus intelligendi. Et hoc augmentum virtutis intellectivae illuminationem intellectus vocamus ... Et istud est lumen de quo dicitur Apoc. 21,23, quod ’claritas Dei illuminabit eam’, scilicet societatem beatorum Deum videntium. (Summa I, q. 12, a. 5, resp.)E la Summa (Supplementum) ci informa pure in che forma tale grazia ci possa pervenire:Et ita patet quod per nullam similitudinem receptam in intellectu creato potest Deus intelligi ita quod essentia eius videatur immediate. Unde etiam quidam, ponentes divinam essentiam per hunc modum videri, dixerunt quod ipsa essentia non videbitur, sed quidam fulgor, quasi radius ipsius. (Summa Suppl., q. 92, a. 1, resp.)A parte tali ragionamenti non dobbiamo mai dimenticare che quello che Dante "vide" nel profondo della luce divina, non fu una sorta di essenza astratta, ma l’amore: "l’amor che move il sole e l’altre stelle" (Par., XXXIII, 145).