II-3

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II-3.  IL NOME DELLA ROSA COME UNA TRAGEDIA

Segnaliamo che per questo capitolo si seguirà sostanzialmente la disposizione del capitolo corrispondente della traccia della commedia, ossia "Il nome della rosa come una commedia" (I-3). Più precisamente il presente capitolo sarà diviso nelle seguenti sezioni:

Che cos’è una tragedia? (1)  –  L’obiettivo preciso del capitolo (2)  –  La struttura omologa NR-bis/TR secondo il canone di Dante della tragedia (3)  –  Il nome della rosa come una tragedia in base alla definizione di Dante (4)  –  Conclusioni (5).

1.  Che cos’è una tragedia?
In I-3 abbiamo scelto per il concetto della "commedia" la definizione esposta da Dante nella famosa Epistola a Cangrande (Epistola XIII). (Per una discussione sull’autenticità della lettera si rimanda allo stesso capitolo.) Sulla definizione di Dante abbiamo scritto:

Questa definizione ha evidenti vantaggi: è già stata usata in un confronto con la Commedia stessa di Dante ... per cui dovrebbe essere un metro perfetto anche per un confronto con gli eventuali lati comici del Nome della rosa; è chiara nella sua formulazione; accanto alla definizione della commedia si fornisce anche, per confronto, una altrettanto chiara definizione della tragedia; è una definizione ponderata in quanto Dante "procede ben oltre la primitiva differenziazione dei generi comico e tragico sulla base dei diversi piani stilistici" (Enciclopedia Dantesca, Roma 1970-1976, voce "Commedia", 1); infatti la definizione ha due dimensioni: sviluppo delle vicende (materia) e modo d’esprimere (modus loquendi)(1).
Vediamo dunque come Dante definisce la tragedia, il che egli fa nel paragrafo 10 dell’epistola, dove c’è pure la sua ricetta per la commedia (la sua Commedia era l’argomento principale della lettera). Nel brano citato abbiamo messo in corsivo quello che riguarda la tragedia:
Ad cuius notitiam sciendum est quod comedia dicitur a "comos" villa et "oda" quod est cantus, unde comedia quasi "villanus cantus". Et est comedia genus quoddam poetice narrationis ab omnibus aliis differens. Differt ergo a tragedia in materia per hoc, quod tragedia in principio est admirabilis et quieta, in fine seu exitu est fetida et horribilis; et dicitur propter hoc a "tragos" quod est hircus et "oda" quasi "cantus hircinus", id est fetidus ad modum hirci; ut patet per Senecam in suis tragediis(2). Comedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur, ut patet per Terentium in suis comediis. Et hinc consueverunt dictatores quidam in suis salutationibus dicere loco salutis "tragicum principium et comicum finem". Similiter differunt in modo loquendi: elate et sublime tragedia; comedia vero remisse et humiliter, sicut vult Oratius in sua Poetria, ubi licentiat aliquando comicos ut tragedos loqui, et sic e converso:
"Interdum tamen et vocem comedia tollit,
iratusque Chremes tumido delitigat ore;
et tragicus plerunque dolet sermone pedestri
Telephus et Peleus, etc.
"(3)
Et per hoc patet quod Comedia dicitur presens opus [la Commedia di Dante]. Nam si ad materiam respiciamus, a principio horribilis et fetida est quia Infernus, in fine prospera, desiderabilis et grata, quia Paradisus; ad modum loquendi, remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant. (Epistola XIII, par. 10)
Vediamo ora che cosa Dante dice sulla tragedia, e più specificamente, sullo sviluppo delle vicende (materia) e il modo d’esprimere (modus loquendi):

–  la materia: all’inizio la tragedia è ammirabile e placida ("admirabilis et quieta"); alla fine o nella conclusione è fetida ed orribile ("fetida et horribilis").(4) Notiamo che la parola latina "f(o)etidus" può anche (come pure nell’italiano) essere presa in senso figurato, come "spiacevole, sgradevole, disgustoso" e simili.

–  il modus loquendi: la tragedia si esprime in modo elevato e sublime ("elate et sublime"). Ma talora la tragedia può anche avere un tono comico ("licentiat aliquando comicos ut tragedos loqui, et sic e converso"), cioè piano e umile ("remissus ... et humilis"). (Precisiamo che per "umile" s’intende qui "poco elevato, dimesso" e simili espressioni.)

In sintesi: una tragedia è un’opera in cui si espone uno sviluppo di vicende (la materia) che devono essere strutturate secondo questo codice: inizio ammirabile e placido e fine fetida o spiacevole e orribile; la lingua della tragedia (il modus loquendi) dev’essere elevata e sublime ma può anche essere piana ed umile.
   Considerando questa definizione possiamo concludere che contiene sostanzialmente due parti: una parte astratta che regola la struttura complessiva della materia (o della trama), e un’altra pratica che prescrive in che forma la stessa materia debba manifestarsi. Cioè: un codice per il contenuto e una regola per la forma.

2.  L’obiettivo preciso del capitolo
Occorre ora formulare l’obiettivo preciso del presente capitolo. Dobbiamo dimostrare:
–  come la struttura omologa NR-bis/TR da un punto di vista della materia possa essere descritta secondo i canoni della tragedia nella sua forma esposta nell’Epistola a Cangrande di Dante;

–  come il libro Il nome della rosa, rappresentato dalla struttura NR-bis, possa essere interpretato come una tragedia secondo gli stessi canoni, considerate sia la dimensione della materia che quella del modus loquendi.

Di questi due punti il primo è rilevante in quanto i suoi risultati ci aiuteranno nella dimostrazione del secondo punto, la rilevanza del quale è ovvia perché si riconnette direttamente al secondo obiettivo principale di questa Seconda parte dello studio (II-1.1), quello cioè di "presentare un’analisi secondo la quale Il nome della rosa può essere interpretato come una tragedia".

3.  La struttura omologa NR-bis/TR secondo il canone di Dante della tragedia
Cominciamo l’esame guardando alla struttura omologa NR-bis/TR quale l’abbiamo presentata nel capitolo precedente. Riferendoci a quanto Dante prescrive per la materia della tragedia, diciamo senz’altro che ciò che conta veramente nell’analisi che segue, è come la struttura omologa inizi e come termini. Dato che la struttura definita segue un iter cronologico – dalla Prima alla Settima ed ultima unità di tempo – è facile determinarne i punti estremi: sono rappresentati rispettivamente dall’elemento omologo 2 ("l’esordio pacifico") e da quello numero 9 ("la tragedia consumata"). Per determinare come la struttura omologa NR-bis/TR inizi e come termini, bisogna quindi esaminare più da vicino questi due elementi. Precisiamo che sono soltanto gli elementi 2-9 che seguono l’iter cronologico; gli altri elementi (1 e 10-17) descrivono la cornice (scena e quinte), entro la quale le vicende delle Sette unità di tempo si verificano: rispetto all’arco temporale di queste vicende gli altri elementi possono perciò essere considerati accessori.
   Cominciamo con l’elemento omologo 2, che riportiamo interamente mettendo in corsivo le parti interessanti ai fini dell’esame:
Nella Prima unità di tempo si assiste a una scena in vista del Territorio, nella quale si presentano due personaggi in un’atmosfera calma e pacifica. Uno dei personaggi è un rappresentante della sapienza. Nel corso della scena si avverte un momento di meraviglia per quello che ha affermato il personaggio sapiente, una meraviglia tale da spingere l’altro a porgere delle domande.
Considerando le parti in corsivo possiamo pacificamente affermare che questo elemento coincide con quanto si esige dall’inizio di una tragedia secondo il canone di Dante: inizio ammirabile e placido. Aggiungiamo che nell’elemento citato non c’è niente che contraddica o metta in dubbio tale conclusione.
   Continuiamo l’analisi applicando lo stesso tipo d’esame all’elemento 9. Riportiamo anche quest’elemento nella sua interezza:
Nella Settima unità di tempo avviene la scena che conclude il dramma in un ambiente di fiamme, fumo e venti. Si sentono grida di dolore e verso la fine si vede una persona in ginocchio, vittima, col capo ferito e i capelli rasati, che si rivolge disperato, gesticolando con le mani, alle potenze occulte. La fine è caratterizzata dalla presenza di fuoco, da un grande fragore, da suoni alti ed acuti, e tutt’attorno c’è un grande sconvolgimento.
Anche in questo caso, considerate le parti in corsivo, ci pare senza rischio affermare che quest’elemento coincide con quello che il canone di Dante esige dalla fine di una tragedia, cioè: fine fetida o spiacevole e orribile. E gli altri ingredienti dell’elemento non lo disdicono. Per la fine fetida o spiacevole, precisiamo che in questo caso l’accento va messo su "spiacevole", anche se non è escluso che il fumo possa essere anche puzzolente (dipende dal carattere di ciò che brucia).
   In base all’esame fatto dei due elementi (inizio e fine), siamo quindi in grado di concludere generalmente sulla struttura omologa NR-bis/TR: è una struttura di fatti che si sviluppa su un arco cronologico, ha un inizio ammirabile e placido e una fine spiacevole (fetida) e orribile. Confrontando infine tale sintesi con il criterio della materia della tragedia (Epistola XIII), arriviamo alla seguente conclusione finale: la struttura omologa NR-bis/TR è da definire come una struttura di fatti che dal punto di vista della materia segue il codice strutturale che Dante prescrive per la tragedia secondo l’Epistola a Cangrande.
   Con ciò ci pare di aver dimostrato il primo punto esposto nella sezione 2 più sopra.

4.  "Il nome della rosa" come una tragedia in base alla definizione di Dante
Continuiamo l’analisi con il secondo punto. Dobbiamo cioè dimostrare come Il nome della rosa sia da considerare una tragedia secondo i canoni dell’Epistola XIII, sia dal punto di vista della materia che da quello del modus loquendi.
   Per la materia non si hanno problemi: considerando infatti Il nome della rosa nella sua forma strutturale NR-bis, come un concatenamento di vicende che comincia con l’apparizione pacifica di Adso e Guglielmo (Prima unità di tempo) e termina con l’ecpirosi, la catastrofe finale dell’abbazia (Settima unità di tempo), è chiaro che anche questa catena strutturale segue il codice della tragedia, perché ciò che vale per l’inizio e per la fine della struttura omologa NR-bis/TR, vale anche per le corrispondenti parti della struttura NR-bis, tanto più che gli elementi omologhi menzionati coincidono rispettivamente con l’inizio e la fine della narrazione dei Sette giorni. In altre parole, confrontando l’inizio della struttura NR-bis con l’elemento 2 (l’inizio) della struttura omologa NR-bis/TR, arriviamo facilmente a caratterizzare anche l’inizio della struttura NR-bis come ammirabile e placido. Lo stesso tipo di ragionamento si applica alla fine della struttura NR-bis, la quale, coincidendo con l’elemento omologo 9 (la fine), si definisce senz’altro spiacevole e orribile. Per il resto si potrebbe anche ipotizzare sul carattere dei fumi che si vedevano – e naturalmente anche si sentivano – un po’ dappertutto nei momenti apicali dell’ecpirosi. Si legge fra l’altro:
dall’accesso alla biblioteca proveniva un fumo denso, gli ultimi che avevano tentato di spingersi su per il torrione orientale già ritornavano tossendo con gli occhi arrossati (Nome, p. 490)

Tutte le finestre erano ormai illuminate, un fumo nero usciva dal tetto (p. 491)

Non ci pare escluso che i protagonisti avrebbero potuto caratterizzare tali fumi come fetidi nel vero senso della parola.
   Prima di esaminare il romanzo sotto l’aspetto del modus loquendi ricordiamo che abbiamo già definito NR-bis in questo modo (cfr. II-1.2, sez. 2): manoscritto latino (di cui disponiamo soltanto di una versione tradotta), racconto effettivo dei Sette giorni all’abbazia. Volendo studiare il modus loquendi del racconto bisogna perciò prendere in considerazione anche la sua veste linguistica latina, fatto che sarà di grande significato per l’analisi.
   La ricetta di Dante della tragedia prescrive, come abbiamo già visto, che la sua lingua dev’essere elevata e sublime ma può anche essere piana ed umile. Ora, dato che la lingua del romanzo secondo la versione NR-bis è quella latina (il manoscritto di Adso), non è difficile affermare che in tale veste il testo aveva di per sé un alto grado di gravitas o elevatezza perché il latino ai tempi di Dante era la "lingua colta e letteraria per eccellenza" (Il Nuovo Zingarelli), come lo è naturalmente anche oggi. Il latino era anche considerata di più gravità del volgare, ciò che è testimoniato per es. da Boccaccio: "... molto più d’arte e di gravità ha [c’è] nel parlare latino che nel materno" (Esposizioni sopra la comedia di Dante, a c. di G. Padoan, Milano 1965, p. 5). E nonostante il Certaldese conceda che la Commedia di Dante sia "leggiadro e sublime" non esita ad affermare che "quantunque [il poema di Dante] in volgare scritto sia ... egli è nondimeno ornato e leggiadro e sublime ... Non dico però, che, se in versi latini fosse, non mutato il peso delle parole volgari, ch’egli [il poema] non fosse più artificioso e più sublime molto" (ibid.).
   Quindi, nella sua versione latina (ormai sparita) Il nome della rosa doveva avere una veste linguistica che generalmente parlando poteva definirsi e colta e letteraria, in una parola: elevata. A ciò si aggiunge che in molte parti del racconto dove c’è anche un alto grado di dramma o di emozione, la versione latina doveva avere un carattere sublime, come l’incontro nella cucina tra Adso e la ragazza senza nome, i patimenti d’amore da parte di Adso, la morte di Malachia, il sermone di Jorge, tutta la ecpirosi, eccetera, eccetera. Ma, come abbiamo già visto, una tragedia secondo la ricetta di Dante poteva anche avere parti con toni stilistici tipici della commedia ("[Orazio] licentiat aliquando comicos ut tragedos loqui, et sic e converso"). E bisogna ammetterlo, anche in veste latina la rissa "tra persone volgari" nella cucina il Secondo giorno doveva certo invitare a un sorriso "dotto", allo stesso modo di "bibit ille, bibit illa, bibit servus cum ancilla" dei Carmina Burana. E ci sono più esempi in cui il tono del manoscritto di Adso doveva essere più comico che tragico.
   Tutto sommato, da questo breve esame è chiaro che il modus loquendi della versione latina del Nome della rosa poteva essere caratterizzato come elevato generalmente, sublime in molte parti e comico o umile in qualche altra parte. E questo armonizza bene con quanto si esige dal modus loquendi di una tragedia secondo la ricetta di Dante.
   Per una sintesi dei punti essenziali delle sezioni 3 e 4, vedi tabella X.

5.  Conclusioni
Concludiamo il capitolo affermando di aver dimostrato – così ci pare – che la struttura omologa NR-bis/TR, dal punto di vista della materia, possa essere descritta secondo i canoni della tragedia nella sua forma esposta nell’Epistola a Cangrande di Dante, e che Il nome della rosa, rappresentato strutturalmente e linguisticamente da NR-bis, possa essere interpretato come una tragedia in base agli stessi canoni, considerate sia la dimensione della materia che quella del modus loquendi.
   Con ciò siamo in grado di porre fine alla trattazione dei canoni tragici inerenti al romanzo di Eco e lo facciamo vocalmente attraverso un gruppo di animali erranti nella commozione generale dell’ecpirosi:
Una parte delle pecore e delle capre, che erravano per la corte, ci passarono accanto lanciando atroci belati. (Nome, p. 496)
Note

(1)  Per il termine di "modo d’esprimere" per il modus loquendi abbiamo seguito la traduzione italiana dell’Epistola nell’edizione da noi usata. Ci sono naturalmente anche altri termini da usare (cfr. I-3, nota 2).

(2)  Vediamo per es. la fine delle Troades di Seneca: la tragedia finisce con 13 versi lamentosi di Ecuba ("Ite, ite, Danai, petite iam tuti domos; / ... concidit virgo [Polissena] et puer [Astianatte]; / bellum peractum est. quo meas lacrimas feram? / ... / ... mors votum meum / infantibus, violenta, virginibus venis ecc." (pp.220-221). Dopo le parole della ex regina viene ultimamente la battuta dell’araldo greco: "Repetite celeri maria, captivae, gradu; / iam vela puppus laxat et classis movet" (p. 221). Una conclusione amara come quella delle Troiane di Euripide.

(3)  I versi di Orazio si trovano nel De arte poetica, vv. 93-96. Telephus e Peleus, figli rispettivamente di Ercole e di Aeacus, ebbero ambedue una vita molto svariata con grandi variazioni di fortuna. Il pensiero di Orazio sembra essere che se nella miseria avessero espresso i loro dolori soltanto con toni elevati, non avrebbero commosso gli spettatori; invece gli serviva un linguaggio più umile e dimesso.

(4)  Per i quattro aggettivi italiani abbiamo seguito la traduzione italiana accanto al testo latino dell’epistola, come pure per gli aggettivi del modus loquendi.

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