I-3

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I-3.  IL NOME DELLA ROSA COME UNA COMMEDIA

Il concetto della "commedia" e l’Epistola XIII di Dante (1a)  –  Definizione della "commedia" secondo Dante (1b)  –  L’obiettivo preciso del capitolo (1c)  –  Inizio e fine della struttura omologa NR/DC in rapporto al concetto di "commedia" secondo Dante (2)  –  Il nome della rosa come una commedia in base alla materia (Epistola XIII) (3a)  –  Il nome della rosa come una commedia in base al modus loquendi (Epistola XIII) (3b)  –  Il nome della rosa come una commedia dal punto di vista sia della materia sia del modus loquendi (Epistola XIII) (3c)  –  La consumazione del codice della commedia (4).

1a.  Il concetto della "commedia" e l’Epistola XIII di Dante
Prima di formulare l’obiettivo di questo capitolo (che si trova nella sez. 1c), bisogna precisare intorno al concetto della "commedia" e quali canoni abbiamo seguito per l’analisi da eseguire.
   È chiaro naturalmente che ci sono tante prescrizioni per quello che s’intende per "commedia". Se volessimo cercare di ricorrere ad una vera auctoritas, Aristotele stesso, la via è purtroppo bloccata: manca sempre il secondo libro della sua Poetica, nonostante l’esistenza di brani, probabilmente falsi, di parti di essa.(1)
   Per non imbrogliarci in una discussione interminabile sul concetto della commedia, abbiamo scelto di seguire una sola definizione, quella esposta nell’Epistola a Cangrande di Dante (per l’autenticità della lettera, vedi più sotto). Questa definizione ha evidenti vantaggi: è già stata usata in un confronto con la Commedia stessa di Dante (vedi più sotto nella definizione: "Et per hoc patet ecc."), per cui dovrebbe essere un metro perfetto anche per un confronto con gli eventuali lati comici del Nome della rosa; è chiara nella sua formulazione; accanto alla definizione della commedia si fornisce anche, per confronto, una altrettanto chiara definizione della tragedia; è una definizione ponderata in quanto Dante "procede ben oltre la primitiva differenziazione dei generi comico e tragico sulla base dei diversi piani stilistici" (Enciclopedia Dantesca, Roma 1970-1976, voce "Commedia", 1); infatti la definizione ha due dimensioni: sviluppo delle vicende (materia) e modo d’esprimere (modus loquendi)(2); per la parte della materia Dante si fonda evidentemente tra l’altro su un’analisi delle commedie di Terenzio, le quali, come è noto, sono da considerare come delle opere veramente importanti nel campo teorico e pratico della commedia, dall’antichità fino ai tempi moderni (vedi per es. Paratore, op. cit., pp. 54-55.); per la parte del modus loquendi si fa richiamo ad un’altra auctoritas, Orazio, che scrisse De arte poetica; la definizione fa anche parte di una trattazione poetica medievale (cioè tutta l’Epistola) che riflette "indubbiamente un atteggiamento interpretativo assai comune a tutta la cultura medievale" (citazione di Eco, vedi più sotto).
   Però, la scelta di questa definizione comporta anche l’obbligo di fare qualche commento supplementare.

–  Come si sa, l’autenticità dell’Epistola, o di parti di essa, è stata discussa in varie riprese. Per una sintesi della discussione rimandiamo alla Enciclopedia Dantesca, voce "Epistole", rubrica "Problemi di autenticità". Tuttavia, la stessa Enciclopedia si è risolta a considerare autentica tutta la lettera, inclusa l’ultima parte che è costituita l’oggetto principale delle discussioni. Sull’ipotesi che solo la prima parte della lettera sia di mano di Dante (Mancini, Nardi), scrive: "Oggi quest’ipotesi [di Mancini], ripresa e sviluppata dal Nardi, fronteggia i contributi del Mazzoni in favore di quella piena autenticità che anche a noi è parsa confermata dalla rispondenza della prospettiva critica suggerita nell’epistola alla condizione e alla coscienza letteraria di D. non molto dopo il 1315" (ibid.). Non crediamo insomma di sbagliare se aderiamo a quest’opinione; ma non ci aderiamo naturalmente senza riserve.
   Tuttavia, il punto essenziale di quest’esame non è l’autenticità della lettera ma il suo contenuto, il quale non esce dai limiti della poetica medievale. Eco che ha dedicato a questa lettera un intero capitolo in Sugli specchi e altri saggi ("L’Epistola XIII, l’allegorismo medievale, il simbolo moderno", pp. 215-241), esprime quest’opinione sull’autenticità e sul contenuto della lettera:

È nota la controversia che concerne questa Epistola ... Potremmo dire che, per quanto riguarda ... la storia delle poetiche medievali ... l’argomento è irrelevante: nel senso che, anche se l’Epistola non fosse stata scritta da Dante essa rifletterebbe indubbiamente un atteggiamento interpretativo assai comune a tutta la cultura medievale (p. 215)
–  Quanto alla definizione dell’Epistola è noto che essa si stacca su qualche punto da ciò che Dante ha detto in precedenza (in De vulgari eloquentia) sul genere comico, in quanto nella nuova definizione il lato umile della lingua di un’opera comica risiede nell’adoperare un idioma che anche le "feminette" possono comprendere, cioè il volgare, mentre prima l’umiltà della veste linguistica della commedia era piuttosto una questione di tono o livello stilistico.(3) In questo senso è evidente che Dante ha fatto una revisione della sua prima concezione. L’Enciclopedia Dantesca (voce "Commedia", 1) scrive:
... escogitando per esso [il poema] una nuova, più complessa formula, che nell’ambito di un titolo tradizionale tenga conto della nobiltà del soggetto e dello stile, e tuttavia lo collochi in una sfera letteraria inferiore, secondo l’antica classifica, al genere "sublime" del poema latino [come l’Eneide di Virgilio].
È da aggiungere che Dante anche più tardi ribadisce il carattere comico, ossia umile, del volgare (ibid.).

1b.  Definizione della "commedia" secondo Dante
Vediamo adesso quanto Dante dice sulla commedia (lasciamo da parte ciò che riguarda esclusivamante la tragedia):
Ad cuius notitiam sciendum est quod comedia dicitur a "comos" villa et "oda" quod est cantus, unde comedia quasi "villanus cantus". Et est comedia genus quoddam poetice narrationis ab omnibus aliis differens. Differt ergo a tragedia in materia per hoc, quod tragedia in principio est admirabilis et quieta, in fine seu exitu est fetida et horribilis; ... Comedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur, ut patet per Terentium in suis comediis. Et hinc consueverunt dictatores quidam in suis salutationibus dicere loco salutis "tragicum principium et comicum finem". Similiter differunt in modo loquendi: elate et sublime tragedia; comedia vero remisse et humiliter, sicut vult Oratius in sua Poetria, ubi licentiat aliquando comicos ut tragedos loqui, et sic e converso:
     "Interdum tamen et vocem comedia tollit,
     iratusque Chremes tumido delitigat ore;
     et tragicus plerunque dolet sermone pedestri
     Telephus et Peleus, etc."
Et per hoc patet quod Comedia dicitur presens opus [la Commedia di Dante]. Nam si ad materiam respiciamus, a principio horribilis et fetida est quia Infernus, in fine prospera, desiderabilis et grata, quia Paradisus; ad modum loquendi, remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant. (Epistola XIII, par. 10)
In questa definizione, per quanto riguarda il richiamo a Terenzio e al suo codice comico ("inchoat asperitatem ecc."), ricordiamo che tutte le sue commedie (almeno quelle conosciute oggi) sono composte secondo il principio "inizio complicato e meno gradevole ma lieta fine"; hanno cioè un inizio caratterizzato da complicazioni più o meno dolorose e sempre in disarmonia, come il portare al vizio giovani donne, azioni di duri padri, separazioni, i tormenti dell’amore; e terminano con dei "congiungimenti", come matrimoni, riconciliazioni, riconoscimento, unioni fra uomo e donna, cose che generalmente sono considerate del tutto felici.(4)
   Quanto ad Orazio possiamo constatare che, a parte quello che Dante dice e che corrisponde ai versi 89-96 di De arte poetica (in Epistulae, London & New York 1964, pp. 61-77), egli non ha praticamente altro da dire sulla commedia nella sua poetica. (I versi 281-284 che trattano fra l’altro la libertà troppo grande di certe commedie, sono senza rilevanza per il nostro argomento.) Tuttavia, l’aver allegato i versi oraziani ("Interdum tamen ecc.") va considerato di cruciale importanza in quanto permette di adattare la lingua alle diverse situazioni e ai differenti personaggi che si ritrovano in un’opera drammatica. Anche un miles dominans poteva in effetti apparire in una commedia, e sarebbe stato assurdo farlo parlare come un pastor otiosus (cfr. in proposito nota 3). Sappiamo del resto che quella dell’adattamento linguistico è una formula che vale per tutta la Commedia di Dante.
   Ma ritorniamo al contenuto effettivo della definizione. Come vediamo, Dante segue quattro linee nella sua trattazione: 1) la materia della commedia, cioè lo sviluppo drammatico delle vicende; 2) il modo d’esprimere delle commedie singole (il modus loquendi); 3) ciò che vale generalmente per la commedia; 4) ciò che vale particolarmente per la sua Commedia e che ne giustifica il titolo. Mettendo insieme quanto dice secondo queste linee, ci pare di poter formulare nel modo seguente la concezione di Dante sulla commedia secondo l’Epistola a Cangrande:
Quanto alla materia:

–  questo vale generalmente: la commedia "inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur";

–  questo vale nel caso specifico della Commedia di Dante: essa è "a principio horribilis et fetida" e "in fine prospera, desiderabilis et grata".

Concludiamo sulla materia della commedia: l’inizio dev’essere aspro in qualche modo, per es. orribile e spiacevole(5), e la fine prospera (felice), qual’è una fine che è desiderabile e grata (gradita, piacevole).
Quanto al modus loquendi:

–  questo vale generalmente: la commedia dev’essere scritta (o recitata) "remisse et humiliter"; talvolta è anche lecito "comicos ut tragedos loqui", cioè "elate et sublime";

–  questo vale nel caso specifico della Commedia di Dante: la lingua è quella umile e "vulgaris" (cioè il toscano e non il latino) in cui "et muliercule comunicant".(6)

Concludiamo sul modus loquendi della commedia: il modo d’esprimere dev’essere in primo luogo piano e umile, come è per es. quando l’opera è scritta in lingua volgare, che pure i meno istruiti (le "muliercule") capiscono; ma il suo carattere o tono stilistico può anche essere elevato e sublime.
   In sintesi: una commedia è un’opera in cui si espone uno sviluppo di vicende (la materia) che devono essere strutturate secondo questo codice: inizio aspro e fine prospera o felice; la lingua della commedia, o il modo d’esprimere (il modus loquendi), dev’essere piano e umile; una condizione sufficiente per arrivare a tale qualità è che l’opera sia scritta in volgare, lingua che anche i meno istruiti capiscono; quanto al tono stilistico, nella commedia possono esserci parti di carattere elevato e sublime (a parte, s’intende, i livelli stilistici normali della commedia; vedi sempre nota 3).
   Considerando questa definizione della commedia possiamo concludere che contiene sostanzialmente due parti: una parte astratta che regola la struttura complessiva della materia (o della trama), e un’altra pratica che prescrive in che forma la stessa materia debba manifestarsi. Cioè: un codice per il contenuto e una regola per la forma.

1c.  L’obiettivo preciso del capitolo
Passiamo ora a formulare l’obiettivo preciso di questo capitolo. Dobbiamo cioè dimostrare:

–  come la struttura omologa NR/DC definita, da un punto di vista della materia, possa essere descritta secondo i canoni della commedia nella sua forma esposta nell’Epistola a Cangrande di Dante: vedi sez. 2;

–  come il libro Il nome della rosa, rappresentato in questo studio dalla struttura NR, possa essere definito quale una commedia secondo gli stessi canoni, considerate sia la dimensione della materia che quella del modo d’esprimere: vedi le sezioni 3a-3c.

Per il primo punto si precisa che esso è rilevante in quanto da un lato i suoi risultati ci aiuteranno nella dimostrazione del secondo punto; da un altro useremo gli stessi risultati nell’analisi del sistema strutturale finale (III-1, sez. 2b).
   La rilevanza del secondo punto è ovvia: si riconnette infatti direttamente al secondo obiettivo di questa Prima parte del lavoro, e cioè: "presentare un’analisi secondo cui Il nome della rosa può essere interpretato come una commedia" (I-1.1, sez. 1).

2.  Inizio e fine della struttura omologa NR/DC in rapporto al concetto di "commedia" secondo Dante
Cominciamo l’esame guardando alla struttura omologa NR/DC quale l’abbiamo presentata nel capitolo precedente. Riferendoci a quanto Dante dice nella definizione sulla materia, diciamo senz’altro che ciò che conta veramente nell’analisi che segue, è come la struttura omologa inizi e come termini. Dato che la struttura segue un iter cronologico – da ciò che accadde prima dei Sette giorni fino a ciò che accadde dopo gli stessi giorni – è facile determinarne i punti estremi: sono rappresentati rispettivamente dall’elemento omologo 5 ("la persona caduta") e da quello numero 19 ("davanti a Dio"). Per determinare come la struttura omologa NR/DC inizi e come termini, dobbiamo quindi esaminare più da vicino questi due elementi.
   Cominciamo con l’elemento omologo 5 che si riporta in I-2.3, sez. 1 ("Prima dei Sette giorni si è alla presenza di una persona che è immersa nel ghiaccio in fondo ad un abisso ecc."). Sintetizzando quest’elemento abbiamo:
Si assiste a una persona caduta che è immersa nel ghiaccio in fondo ad un abisso. Presenta un brutto aspetto. Il luogo dove si trova la persona caduta puzza. Nel luogo spira un vento gelido e forte.
Considerando questa sintesi, senza però trascurare gli altri punti dell’elemento, ci domandiamo se sia possibile o no definirlo nella sua interezza secondo qualche parte del criterio della commedia nella forma strutturale definita sopra: cioè, rappresenta questa serie di fatti un evento che sia da definire come aspro in qualche modo o deve invece essere definito come qualcosa di felice o neutro? La domanda è naturalmente retorica, perché la risposta non può essere altro che una conferma del carattere aspro delle "cose" dell’evento (abisso – vento gelido e forte – persona ficcata nel ghiaccio – brutto aspetto della persona – puzzo).(7)
   Applichiamo ora lo stesso tipo d’esame sull’elemento "davanti a Dio". Per la definizione di quest’elemento rimandiamo ancora una volta a I-2.3, sez. 1 ("... dopo il periodo dei Sette giorni accade che il Discepolo, pervaso dalla grazia divina illuminatrice, si unisce a Dio. ecc."). Sintetizzando arriviamo a questa formulazione:
Il Discepolo pervaso dalla grazia divina illuminatrice si unisce a Dio. Al momento dell’unione, egli vede la divina essenza e raggiunge la perfetta beatitudine, ultimo fine della sua vita.
Anche dinanzi a questa sintesi di fatti ci domandiamo se sia possibile o meno applicare i criteri della fine o del principio della commedia di cui sopra. Anche qui la risposta è univoca: quale fine può essere più lieta o felice che quella che si descrive nella sintesi? In altre parole: quella della struttura omologa NR/DC è una fine che rientra perfettamente nel campo delle cose felici, ciò che è richiesto per l’elemento terminale di una commedia secondo il codice dantesco.(8)
   In base all’esame fatto dell’elemento iniziale e di quello terminale della struttura omologa NR/DC, siamo quindi in grado di concludere generalmente sulla stessa struttura: è una struttura di fatti che si sviluppa su un arco cronologico, ha un inizio aspro e termina felicemente. Confrontando infine tale somma conclusiva della struttura omologa NR/DC con il criterio della materia della commedia (Epistola XIII), arriviamo alla seguente conclusione finale: la struttura omologa NR/DC è da definirsi come una struttura di fatti che dal punto di vista della materia segue il codice strutturale che Dante prescrive per la commedia secondo l’Epistola a Cangrande.
   Con ciò ci pare di aver dimostrato il primo punto esposto nella sez. 1c del presente capitolo.

3a.  "Il nome della rosa" come una commedia in base alla materia (Epistola XIII)
Continuiamo l’analisi con il secondo punto. Dobbiamo cioè dimostrare come Il nome della rosa sia da considerare una commedia secondo i canoni dell’Epistola XIII, sia dal punto di vista della materia che da quello del modus loquendi.
   Per la materia non si hanno problemi: considerando infatti Il nome della rosa nella sua forma strutturale definita in I-1.4, sez. 1 (struttura NR), come un concatenamento di vicende che comincia con la morte di Adelmo (prima dei Sette giorni) e termina con la morte di Adso, la voce narrante (dopo i Sette giorni), è chiaro che anche questa catena strutturale segue il codice della commedia, perché ciò che vale per l’inizio e per la fine della struttura omologa NR/DC, vale anche per i corrispondenti elementi della struttura NR (secondo la definizione stessa della struttura omologa: vedi I-1.3); vale cioè anche per la morte di Adelmo (inizio) e per la morte di Adso (fine). In altre parole, confrontando gli elementi estremi della struttura NR con quelli corrispondenti della struttura omologa NR/DC arriviamo facilmente a definire l’inizio della struttura NR come caratterizzato da "abisso – vento gelido e forte – persona immersa nel ghiaccio – brutto aspetto della persona – puzzo": un inizio insomma dal carattere aspro; e la fine della struttura NR – il congiungimento di Adso con la divinità – è sempre una cosa sommamente felice.(9)

3b.  "Il nome della rosa" come una commedia in base al modus loquendi (Epistola XIII)
Per il modus loquendi constatiamo in primo luogo che il romanzo di Eco, nella forma che ha oggi, è stato scritto in italiano, lingua che risale più o meno direttamente al toscano, cioè a quell’idioma che Dante definisce "locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant". Tenendo conto poi del fatto che Dante stesso nell’Epistola vede proprio tale forma linguistica come un argomento per definire la sua Commedia come una commedia vera e propria anche dal punto di vista del modus loquendi ("ad modum loquendi ecc."), è facile giungere a una simile conclusione anche per Il nome della rosa, ossia: anche dal punto di vista del modus loquendi il romanzo dell’Eco (versione italiana) è da considerare come una commedia (canoni di Dante secondo l’Epistola a Cangrande), in quanto la sua forma linguistica corrisponde alla "locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant". (Per l’umiltà della "locutio vulgaris", rimandiamo alla nota 6.)
   Quanto al tono o al carattere stilistico si aggiunge che la definizione di Dante non prescrive niente di particolare; dice soltanto che esso poteva, ma non doveva, essere elevato e sublime: era lecito quindi usare toni alti e sublimi anche in varie parti di un’opera comica. Orazio dice infatti: "Interdum tamen et vocem comedia tollit ecc." (Per la portata di questa licenza si rimanda a quanto abbiamo detto nella sez. 1b.)
   Tuttavia, se consideriamo Il nome della rosa da un punto di vista puramente stilistico, è facile constatare che nel libro di Eco si reperiscono toni di tutti i colori, inclusi i tre livelli stilistici tradizionali: stile umile o basso, per es. nel dialogo volgarissimo fra il capo cuciniere e Salvatore la mattina del Secondo giorno ("terza"); stile mezzano nell’iter normale della narrazione e dei dialoghi; stile sublime o grave, per es. nel sermone di Jorge del Quinto giorno ("compieta") e nelle recitazioni latine, fra le altre quella del rito funebre per l’anima di Malachia (cap. "Sesto giorno, terza"). Nel libro c’è perfino quello che si potrebbe chiamare livello astilistico: si pensi alla non-lingua di Salvatore.

3c.  "Il nome della rosa" come una commedia dal punto di vista sia della materia sia del modus loquendi (Epistola XIII)
Con la conclusione intorno al modus loquendi del Nome della rosa ci pare di aver dimostrato anche il secondo punto dell’obiettivo prefissoci per questo capitolo (cfr. sez. 1c).
   Fatto ciò, ci pare di aver portato a termine anche la seconda parte dell’obiettivo principale della Prima parte del nostro studio, quella indirizzata a dimostrare come Il nome della rosa possa essere interpretato come una commedia (cfr. I-1.1, sez. 1).
   Per un’esposizione schematica dell’analisi fatta, rimandiamo alla tabella VII.
   Per curiosità potrebbe a questo punto essere interessante vedere in quale misura Il nome della rosa si adatti a ciò che – secondo il manoscritto di Adso – Aristotele dice nell’inizio della sua trattazione sulla commedia. Come ricordiamo, la notte della catastrofe Guglielmo riesce infatti a leggerne la prima pagina (Nome, pp. 471-472). Ma tale esame andrebbe fuori dei limiti di questo lavoro.

4.  La consumazione del codice della commedia
Infine, per connettere la nostra analisi sulla commedia al simbolismo esposto nella digressione XIV e che riguarda la consumazione della commedia da parte del cieco Jorge, possiamo anche dire che nel presente capitolo abbiamo dimostrato come attraverso un iter analitico che va dalla morte di Adelmo fino alla morte di Adso e al suo congiungimento con la divinità, il codice della commedia sia stato consumato. Ciò dicendo ricordiamo pure che la parola "codice" può essere compresa anche nel significato di "libro manoscritto".
   Dopo aver percorso la traccia della commedia continuiamo l’analisi con la traccia della tragedia, che è esposta nella Seconda parte del nostro lavoro.

Note

(1)  Aristotele ci ha lasciato tuttavia qualche testimonianza della sua concezione della commedia. Nel suo primo libro della Poetica (se accettiamo di chiamarlo così – rimane sempre l’enigma dell’esistenza effettiva del secondo libro) inserisce infatti qua e là nella generale trattazione della tragedia anche dei commenti sulla commedia; ma questi commenti non sono che marginali, e non sono in contraddizione – ciò che riteniamo importante – alla commedia quale per es. Dante la concepisce.

(2)  Per il termine di "modo d’esprimere" per il modus loquendi abbiamo seguito la traduzione dell’Epistola nell’edizione da noi usata. Un altro termine potrebbe essere "eloquio", sul modello di quanto Guglielmo dice – in traduzione italiana – leggendo dal secondo libro della Poetica di Aristotele: "Definiremo dunque di quale tipo di azioni sia mimesi la commedia, quindi esamineremo i modi in cui la commedia suscita il riso, e questi modi sono i fatti e l’eloquio" (Nome, p. 471). In queste poche parole ci pare quindi che "l’eloquio" corrisponda più o meno al modus loquendi della definizione dantesca (e "i fatti" alla materia). Tuttavia, per arrivare ad "eloquio" si passa dal greco (Aristotele), al latino (Guglielmo attraverso Adso), al francese (Vallet) e infine all’italiano (Eco); purtroppo non disponiamo del manoscritto autografo di Adso per controllare quale parola Guglielmo usasse realmente: eloquium, elocutio, o altro.
   Non possiamo non far osservare a questo punto come "Aristotele", formulando le regole per la commedia, faccia distinzione tra fatti ed eloquio, quasi come avesse letto in anticipo l’Epistola a Cangrande di Dante. E per ritornare alle parole "i modi in cui la commedia suscita il riso", ci pare bene ricordare che la parola "riso" può significare varie cose in italiano, non soltanto il riso sonoro, ma anche "allegrezza" e "sorriso".

(3)  Ragionando in De vulgari eloquentia su come i poeti debbano adattare lo stile alla materia, aveva scritto: "Deinde ... debemus discretione potiri, utrum tragice, sive comice, sive elegiace sint canenda. Per tragediam superiorem stilum inducimus, per comediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum. Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem [oportet] ligare. Si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgare sumatur; ... Si autem elegiace, solum humile oportet nos sumere" (II, iv). Quanto allo stile umile ricordiamo che nella retorica medievale esso corrispondeva al modo d’espressione tipico delle classi umili o basse. Nota è la ruota di Virgilio che distingue i tre stili fondamentali (grave, mediocre, umile) per mezzo rispettivamente del miles dominans, dell’agricola e del pastor otiosus (Guiraud, La Stylistique, VI ed., Paris 1970, p. 17).

(4)  Vedi le sei commedie Andria, Heauton timorùmenos, Eunuchus, Phormio, Hecyra, Adelphoe, per es. in Terentius, Comoedie (Oxford & London 1935). In quest’edizione si trovano anche le cosiddette perioche in versi del grammatico Sulpicio Apollinare, nelle quali si espone in succinto il contenuto delle opere terenziane.

(5)  Per l’aggettivo "spiacevole" – o altro della stessa categoria semantica: sgradito, ripugnante, abominevole, atroce, ecc. – invece di "fetido", ricordiamo che il latino "foetidus" poteva essere usato anche in modo figurato; vedi per es. Lewis & Short: "foul", "disgusting", Georges, Ausführliches lateinisch-deutsches Handwörterbuch, Hannover & Leipzig 1913-1918: "widrig", "ekelhaft", Thesaurus Linguae latinae, Leipzig 1900-1991: "ingratus", "corruptus", ecc. Ma in questo caso non va naturalmente esclusa la traduzione letterale della parola (puzzante, fetido), tanto più che sappiamo che l’Inferno di Dante proprio puzzava (vedi I-2.2.4, punto B2.2).

(6)  Forse sorprende il fatto che Dante consideri umile il suo volgare ("remissus est modus et humilis"). Ma bisogna avere in mente che esso non è umile di per sé ma in confronto al latino, che ai tempi di Dante era la "lingua colta e letteraria per eccellenza" (Il Nuovo Zingarelli); il latino era anche considerata di più gravità del volgare, ciò che testimonia per es. Boccaccio: "... molto più d’arte e di gravità ha nel parlare latino che nel materno" (op. cit., p. 5). Oggi è naturalmente difficile sentire tale umiltà del volgare di Dante. Ma la situazione linguistica dell’Italia odierna è un’altra: il latino non costituisce più nessun’alternativa naturale, e il volgare di Dante si è trasformato più o meno in lingua nazionale. Tuttavia, in un diretto confronto con il latino, la minore gravità – e con ciò la maggiore umiltà – dell’italiano di Dante resterebbe sempre la stessa (con qualche variazione di grado, s’intende). Anche oggi il Gedankenexperiment di Boccaccio dovrebbe quindi avere lo stesso esito: "quantunque [il poema di Dante] in volgare scritto sia, ... egli è nondimeno ornato e leggiadro e sublime ... Non dico però, che, se in versi latini fosse, non mutato il peso delle parole volgari, ch’egli non fosse più artificioso e più sublime molto" (ibid.).

(7)  Notiamo che in questa serie di elementi spiacevoli ossia aspri troviamo buoni esempi di ciò che offende tutti e quattro i sensi esterni del corpo umano: il senso tattile (il gelo e gli urti contro il fondo dell’abisso), l’olfatto (il puzzo), la vista (il brutto aspetto), l’udito (il rumore del vento forte). (Fra i tradizionali sensi del corpo c’è anche il gusto; ma questo è un senso che si registra dentro al corpo.) Possiamo per questo concludere sul grado d’asprezza dell’elemento esaminato che si tratta evidentemente di un grado quanto mai elevato.

(8)  Può forse sembrare strano definire ciò che accade ad Adso al momento della sua morte come una cosa felice. Ma qui dobbiamo distinguere fra due concetti della felicità, uno che riguarda l’aspetto terreno (naturale) e l’altro che concerne l’aspetto celeste (soprannaturale); cfr. per es. Pico della Mirandola: "Est autem felicitas (ut theologi praedicant) alia quam per naturam, alia quam per gratiam consequi possumus. Illam naturalem, hanc supernaturalem appellant" (Heptaplus, in De hominis dignitate ecc., pp. 325-326). E in questo contesto non ci pare sbagliato seguire l’opinione di Pico sulla vera felicità: "Felicitatem ego sic definio: reditum uniuscuiusque rei ad suum principium" (ibid., p. 326). Per San Tommaso, Dante, Adso, Pico ed altri vale il principio che quando l’anima si ricongiunge con Dio, arriva finalmente in porto, dopo la peregrinatio terrena.

(9)  Se la morte di Adso è un evento felice, non possiamo dire la stessa cosa della morte di Adelmo? Considerando Il nome della rosa come la storia di Adso da Melk (cfr. I-1.4, nota 1), raccontata nella forma di un Ich-Erzählung, rispondiamo che dev’essere chiaro che le morti di altre persone vengano osservate solo nei loro aspetti esteriori, cioè con tutte le bruttezze che comportano.

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