(I-2.2.5)    I-2.2.5.1

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I-2.2.5.  CIÒ CHE ACCADDE DURANTE I SETTE GIORNI

In questo capitolo definiremo complessivamente 13 elementi omologhi. Quanto alle indicazioni e ai calcoli temporali delle vicende del Nome della rosa e del cammino di Dante, si riferisce generalmente alle tabelle III e IV.

I-2.2.5.1.  ELEMENTO OMOLOGO NR/DC 6

La visione dei tre esseri orrendi

A.  OGGETTO DELL’ANALISI
Due scene in cui i rispettivi Discepoli hanno una visione di una serie di esseri fra cui si possono identificare leone, lupa e lonza. Definizione delle scene:
   Il Primo giorno, dopo aver assistito al colloquio tra Guglielmo e l’Abate, Adso si reca alla chiesa abbaziale per cercare Ubertino. Ma prima di entrare è colto da una visione proprio sull’ingresso della chiesa: si tratta dell’allucinante visione provocata dalle figure in pietra istoriate sul timpano del portale, sulle sue colonne e sulle arcate che conducono allo stesso portale, situato come in fondo a un "abisso":

Due colonne diritte e pulite antistavano l’ingresso, che appariva a prima vista come un solo grande arco: ma dalle colonne si dipartivano due strombature che, sormontate da altri e molteplici archi, conducevano lo sguardo, come nel cuore di un abisso, verso il portale vero e proprio, che si intravedeva nell’ombra, sovrastato da un gran timpano. ... superate le due colonne, ci trovammo di colpo sotto la volta quasi silvestre delle arcate che si dipartivano dalla sequenza di colonne minori ... Abituati finalmente gli occhi alla penombra, di colpo il muto discorso della pietra istoriata ... folgorò il mio sguardo e mi immerse in una visione di cui ancor oggi a stento la mia lingua riesce a dire. (Nome, pp. 48-49)
Ma nonostante la sua difficoltà a ricordare tutto, Adso continua il racconto esponendo almeno parte di ciò che vide, inclusa una serie di esseri, fra cui in primo luogo un leone:
Vidi un trono posto nel cielo e uno assiso sul trono. ... Davanti al trono, sotto i piedi dell’Assiso, scorreva un mare di cristallo e intorno all’Assiso, intorno al trono e sopra il trono, quattro animali terribili – vidi – terribili per me che li guardavo rapito ...
   Ovvero, non tutti potevano dirsi terribili, perché bello e gentile mi apparve l’uomo che alla mia sinistra ... porgeva un libro. Ma orrenda mi parve dal lato opposto un’aquila ... E ai piedi dell’Assiso, sotto alle due prime figure, altre due, un toro e un leone, (p. 49)(1)
Vede inoltre una lupa. Ma questa lupa non è la femmina del Canis lupus, bensì una lupa nel senso figurato della parola, vede cioè una femmina piena di voluttà carnale. Adso scrive:
E mentre ritraevo l’occhio affascinato da quella enigmatica polifonia di membra sante e di lacerti infernali, vidi a lato del portale, e sotto le arcate profonde ... altre visioni orribili a vedersi ... e vidi una femmina lussuriosa nuda e scarnificata ... accoppiata a un satiro dal ventre rigonfio (p. 51)
In terzo luogo ha la visione di una serie di animali che rappresentano la lonza, tipo di animale che s’inserisce quasi inosservato nella miriade di altri esseri infernali incisi sulla pietra:
e [vidi] tutti gli animali del bestiario di Satana riuniti a concistoro ... fauni, esseri dal doppio sesso, bruti dalle mani con sei dita, sirene, ippocentauri, gorgoni ... arpie, incubi, dracontopodi, minotauri, linci, pardi, chimere ecc. (p. 52)
E le lonze? Quest’animale è rappresentato o dalle linci o dai pardi. Come ben si sa, la lonza medievale ha una definizione un po’ diffusa ma è comunque da identificarsi almeno con uno di questi animali felini (vedi per es. Il Nuovo Zingarelli).(2) (3)
   La scena corrispondente della Commedia è naturalmente quella famosissima delle tre fiere del primo canto dell’Inferno, dove Dante, uscito dalla "selva selvaggia", si dirige verso il colle illuminato dal sole ma viene fermato e anzi costretto a ritirarsi a causa delle belve che gli impediscono la via. Benché sia forse superfluo citare le terzine relative, abbiamo pensato sia meglio farlo e ciò per agevolare un riscontro immediato con il testo del Nome della rosa. Ecco dunque i versi danteschi su cui si basa la scena:
Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita. ... Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, / la dove terminava quella valle / che m’avea di paura il cor compunto, / guardai in alto, e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogni calle. ... Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, / ripresi via per la piaggia diserta ... / Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta, / una lonza leggera e presta molto, che di pel maculato era coverta; ... Temp’era dal principio del mattino, / e ’l sol montava ’n su con quelle stelle ... sì ch’a bene sperar m’era cagione / di quella fera alla gaetta pelle l’ora del tempo e la dolce stagione; / ma non sì che paura non mi desse / la vista che m’apparve d’un leone. / Questi parea che contra me venesse / con la test’alta e con rabbiosa fame, / sì che parea che l’aere ne temesse. / Ed una lupa, che di tutte brame / sembiava carca nella sua magrezza, (Inf., I, 1-50)
B.  ANALISI COMPARATIVA
Giorno e ora delle scene (B1) – Qualità supplementari degli esseri definiti (B2) – I rappresentanti della lussuria, dell’avarizia e della superbia (B3) – Teatro delle scene (B4) – Direzione intenzionale dei Discepoli nelle scene (B5) – L’apparizione dei Maestri al termine delle scene (B6) – Definizione dell’elemento omologo NR/DC 6 (C).

B1.  GIORNO E ORA DELLE SCENE
La scena NR ha luogo il Primo giorno ed è riferita nel cap. "Primo giorno, sesta" (Nome, p. 48).
   Per stabilire l’ora della scena basti citare queste parole: "In quell’ora del giorno il sole pallido batteva quasi a picco sul tetto e la luce cadeva di sghimbescio sulla facciata senza illuminare il timpano" (ibid.). Dalle parole di Adso si ha che "quell’ora" s’aggira intorno a mezzogiorno. Volendo precisare sembra che le 12.00 siano già passate, perché la luce del sole cade ormai da una posizione lievemente occidentale, fatto che si ricava dall’indicazione di Adso che la facciata della chiesa (non il timpano) era illuminata dai raggi solari, e la facciata guardava, come ben si vede nella pianta I, proprio verso ovest (del tutto conformemente alla posizione normale di una chiesa cristiana). Devono insomma essere poco dopo le 12. Ma quanto "poco dopo"? Forse 30 minuti, forse anche più, ma certamente non oltre un’intera ora, perché la frase usata da Adso "il sole pallido batteva quasi a picco sul tetto" (vedi la citazione precedente) indica proprio un’ora del tutto vicino, o almeno abbastanza vicino, a mezzogiorno.
   Quanto al giorno e all’ora della scena DC il compito è facile: è il primo giorno del cammino di Dante insieme con Virgilio, il "famoso saggio" che salva Dante dalle bestie al termine della scena. È insomma il Primo giorno.
   In questo giorno la scena si colloca nella prima parte della mattina. Ecco le relative parole di Dante: "Temp’era dal principio del mattino, / e ’l sol montava ’n su con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle" (Inf., I, 37-40). Traducendo l’indicazione temporale in ore precise arriviamo ad inserire la scena fra le 6 e le 9 di mattina, dove le 6 rappresentano l’ora della levata del sole sull’orizzonte. Probabilmente era del resto già passato alquanto tempo dopo le 6, considerato che le fiere appaiono a Dante solo dopo un certo tempo (ma non molto) dalla levata del sole, cioè dopo che egli, raggiunto il colle vestito dai raggi del sole, aveva riposato un po’: rimandiamo alla citazione nella definizione della scena.

·  Le scene hanno luogo il Primo giorno, tra le 6.00 e le 13.00.

B2.  QUALITÀ SUPPLEMENTARI DEGLI ESSERI DEFINITI
Sul conto degli esseri rilevati nella definizione della scena NR è possibile definire diverse qualità supplementari. Vediamo ora se possiamo tra queste qualità trovare delle corrispondenze fruttuose con gli esseri della scena DC. Cominciamo l’esame con il leone.
   Sul conto di quell’animale registriamo queste due qualità: è tremendo e ruggisce; ciò che si evidenzia in questo brano di testo che riguarda non solo il nostro leone ma anche il toro, tutti e due collocati ai piedi dell’Assiso: "Entrambi alati ... e se tremendi apparivano era perché ruggivano in adorazione di un Venturo che avrebbe giudicato i vivi e i morti" (Nome, p. 49).
   La lupa, come già sappiamo dall’analisi intorno alla sua denominazione (lupa = donna sessualmente avida), è un essere pieno di bramosia. E al pari del leone anche la lupa incute paura ad Adso che la sta guardando sulla pietra: ecco l’inizio (ancora una volta) della parte della sua descrizione riguardo ad essa: "vidi ... altre visioni orribili a vedersi ... e vidi una femmina lussuriosa" (p. 51).
   Quanto alle lonze (cioè le linci o i pardi) non possiamo dire tanto. Solo che anch’esse, agli occhi di Adso, erano degli esseri orribili. Lo sappiamo perché sia le linci che i pardi fanno parte della stessa serie di esseri orrendi di cui fa parte anche la lupa bramosa. Ma per ribadire ancora di più il carattere pauroso della parte della visione in cui s’inseriscono le lonze, riportiamo queste parole di Adso che descrivono bene la sua reazione a tanta serie di esseri orribili: "E tramortito (quasi) da quella visione [con fra l’altro le lonze], incerto ormai se mi trovassi in un luogo amico o nella valle del giudizio finale, sbigottii, e a stento trattenni il pianto" (p. 52).
   Vediamo ora come le qualità supplementari definite per gli esseri della scena NR possano trovare dei riscontri negli animali corrispondenti della scena DC. Il compito si risolve quasi da sé.
   Per il leone ritorniamo a questi versi (versi che seguono quelli della lonza): "... ma non sì che paura non mi desse / la vista che m’apparve d’un leone. / Questi parea che contra me venesse / con la test’alta e con rabbiosa fame, / sì che parea che l’aere ne temesse" (Inf., I, 44-48). È quindi chiaro che il leone di Dante era un animale che incuteva paura. Ma il testo non dice altrettanto chiaramente che quel leone proprio ruggisse; però, che si trattasse effettivamente di un leone ruggente, deve essere fuori dubbio, considerato che un leone che avanza tutt’a un tratto "con la testa alta e con rabbiosa fame" e che anche fa sì che l’aria quasi "ne tema", deve naturalmente proprio ruggire; altro sarebbe infatti del tutto inverosimile.
   La lupa della scena dantesca è, come abbiamo già visto, una bestia magra e tutta piena di bramosia. Ricordiamo questi versi: "Ed una lupa, che di tutte brame / sembiava carca nella sua magrezza" (vv. 49-50); e anche la lupa è paurosa (spaventosa) perché, secondo Dante stesso, "questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscìa di sua vista, / ch’io perdei la speranza dell’altezza" (vv. 52-54).
   Infine la lonza, che in realtà viene prima nella scena delle belve dantesche. Sul conto di quest’animale felino registriamo solo la seguente qualità supplementare: era pauroso. Ma tale qualità non appare in modo immediato dai versi di Dante; dev’essere tuttavia chiaro che lui la considerasse di fatto una bestia paurosa dato il suo modo di descriverla: "quella fera alla gaetta pelle" (ibid., v. 42); e questa "fera" mostrava anche chiaramente la sua indole aggressiva: "anzi impediva tanto il mio cammino, / ch’i’ fui per ritornar più volte volto" (vv. 35-36).

·  Sul conto degli esseri registriamo le seguenti qualità supplementari: incutevano tutti paura o spavento; i leoni erano anche di quelli ruggenti; le lupe erano magre e piene di bramosia.

Si osservi che quando registriamo la qualità di incutere paura o spavento, intendiamo dire che si trattava di una qualità attiva, cioè che gli esseri, con il loro modo di agire oppure con le fattezze spaventose, riuscivano effettivamente ad intimorire i Discepoli o farli sbigottire.
  Possiamo anzi affermare che questi sentimenti sgradevoli dovevano essere di grande intensità perché Adso confessa di essere sul punto di piangere: "e a stento trattenni il pianto" (Nome, p. 52); e Dante irrompe perfino in lacrime alla vista della lupa che gli impedisce la via; ascoltiamo Virgilio: "’A te conviene tenere altro viaggio’ / rispuose poi che lagrimar mi vide / ’se vuo’ campar d’esto loco selvaggio’" (Inf., I, 91-93).(4)


B3.  I RAPPRESENTANTI DELLA LUSSURIA, DELL’AVARIZIA E DELLA SUPERBIA
Nella definizione della scena NR abbiamo identificato una serie di figure che rappresentano tre tipi di esseri: il leone, la lupa e la lonza, tipi per i quali abbiamo definito, nel punto precedente, delle qualità supplementari. Ponendo ora l’occhio sugli animali della scena DC e sul ben noto fatto che essi sono delle allegorie viventi, ci domandiamo se nella scena NR sia possibile reperire anche dei rappresentanti di diverse ma ben precise qualità cardinali umane, magari tali che corrispondano a quello che già sappiamo sull’allegorismo animalistico di Dante. La risposta è affermativa. Possiamo infatti identificare senza difficoltà almeno tre esseri, ciascuno dei quali è un chiaro rappresentante di una qualità biasimevole umana. Per il primo essere si potrebbe dire che l’abbiamo già "colto in flagrante" nella definizione della scena: si tratta cioè della femmina lussuriosa, la lupa, che si accoppia a un satiro. Ripetiamo la parte rilevante della citazione "Nome, p. 51": "e vidi una femmina lussuriosa nuda e scarnificata ... accoppiata a un satiro dal ventre rigonfio". Questa femmina rappresenta naturalmente la lussuria.
   Il secondo essere della nostra serie è un avaro, il quale non può rappresentare, s’intende, altro che l’avarizia. Ecco le parole di Adso: "e vidi un avaro, rigido della rigidità della morte sul suo letto sontuosamente colonnato, ormai preda imbelle di una coorte di demoni di cui uno gli strappava dalla bocca rantolante l’anima in forma di infante" (p. 52).
   Il terzo essere è uno che rappresenta la superbia: "e vidi un orgoglioso cui un demone s’installava sulle spalle ficcandogli gli artigli negli occhi" (pp. 51-52). Qui forse qualcuno obietterà dicendo che l’orgoglio non deve necessariamente essere equivalente proprio alla superbia, perché può anche essere sinonimo alla fierezza d’animo, che è una qualità umana piuttosto positiva. Però, che l’orgoglio in questo caso debba essere preso appunto nel significato di "superbia" (e non di "fierezza"), dev’essere chiaro se non altro dal fatto che l’essere orgoglioso che Adso vede è esposto proprio a una terribile punizione ("cui un demone s’installava sulle spalle ficcandogli gli artigli negli occhi"); e come si sa, la fierezza non costituisce nessun peccato capitale, ma lo è invece la superbia.
   Abbiamo insomma identificato nella descrizione di Adso rappresentanti della lussuria, dell’avarizia e della superbia.(5)
   E i corrispondenti rappresentanti della scena DC? Sono naturalmente gli stessi animali che abbiamo già incontrati nella definizione della scena, cioè la lonza, il leone e la lupa. E ognuno sa che questi animali, fin dalla loro nascita nel poema dell’Alighieri, sono stati interpretati allegoricamente come rappresentanti di vizi umani. Ma i commentatori non sono sempre stati d’accordo di quali vizi si tratti. Tuttavia, per attenersi alla tradizione più autorevole, nata ed affermata già nel Trecento, abbiamo qui a che fare con i vizi della lussuria (la lonza), della superbia (il leone) e dell’avarizia (la lupa). Si può allegare, fra molte altre, la testimonianza di Boccaccio, che nel suo commento scrive:

... essere state tre bestie quelle che il suo salire impedivano: una leonza, o lonza che si dica, e un leone e una lupa. Le quali, quantunque a molti e diversi vizi adattare si potessono, nondimeno qui ... par che si debbano intendere per questi, cioè per la lonza il vizio della lussuria e per lo leone il vizio della superbia e per la lupa il vizio dell’avarizia. (op. cit., p. 73)
Il commento del Certaldese dovrebbe certo bastare, ma ecco in ogni modo anche un commento moderno: "Ma vengono attribuite ad esse [le fiere] diverse valenze specifiche. Secondo la spiegazione più antica ed autorevole, la lonza rappresenta la lussuria, il leone la superbia, la lupa l’avarizia" (Cataldi/Luperini-Comm., p. 13).(6)

·  Nelle scene si possono identificare rappresentanti della lussuria, dell’avarizia e della superbia.

Questa conclusione richiede un commento a parte. I rappresentanti dei tre vizi sono nella scena DC le tre belve dantesche: la lonza, il leone e la lupa; nella scena NR sono invece una femmina lussoriosa, un orgoglioso e un avaro. Ma la femmina lussoriosa del Nome della rosa rappresenta anche – bensì in modo figurato – la lupa, animale che nella Commedia è simbolo dell’avarizia; e nella scena NR le specie lonza e leone sono rappresentate da animali "normali", cioè da linci o pardi e da un leone. Questi vari ruoli rappresentativi degli esseri della scena NR comportano indubbiamente un’anomalia di simmetria, soprattutto in confronto alle tre belve della Commedia. Ma non nuocciono alla conclusione come l’abbiamo formulata qui, perché non stabilisce nessuna identificazione esplicita tra vizi ed esseri apparsi nelle scene.
   Per una visione compendiosa dei ruoli degli esseri interessati, si raccomanda di consultare tabella VI.


B4.  TEATRO DELLE SCENE
In fondo all’ingresso della chiesa abbaziale c’è il portale sopra il quale si eleva il timpano. Come abbiamo già notato, scolpita sulla pietra del timpano si vede la figura di Dio in forma di un "Assiso": "Vidi un trono posto nel cielo e uno assiso sul trono" (Nome, p. 49).(7) E nella visione di Adso l’Assiso viene descritto in questo modo: "Il volto era illuminato dalla tremenda bellezza di un nimbo cruciforme e fiorito, e vidi brillare intorno al trono e sopra il capo dell’Assiso un arcobaleno di smeraldo" (ibid.). Rapito dalla visione Adso vede insomma non più la sola pietra con delle figure oscurate dall’ombra, ma il volto di Dio illuminato dai raggi di una gloria (il nimbo cruciforme) e un arcobaleno lucente intorno al trono celeste.
   Ma vede anche altre cose sul timpano: vede quattro animali, tre dei quali appaiono terribili ai suoi occhi. Sono gli animali "intorno al trono e sopra il trono" di Dio, di cui tuttavia solo tre riescono a terrificare veramente l’anima rapita di Adso; cfr. la citazione "Vidi un trono ecc." nella definizione della scena.
   Sintetizzando possiamo quindi dire che quello che Adso vede in questa parte dell’ingresso è una superficie che si eleva in alto, sulla quale si possono identificare tre animali terribili e alla cui sommità si vede della luce.
   Però, per arrivare fino alla "superficie elevata", cioè al portale con il suo timpano, bisogna attraversare l’altra parte dell’ingresso, quella con le arcate istoriate e le loro colonne, che formano quasi un corridoio o vestibolo da superare prima di raggiungere la meta, il portale. Ricordiamo la descrizione "Due colonne diritte ecc." nella definizione della scena.
   Vediamo ora come si possa caratterizzare quest’altra parte dell’ingresso.
   Dalla descrizione che segue dopo la precedente citazione si vede come per Adso la volta delle arcate abbia quasi carattere di luogo silvestre. Egli scrive infatti: "superate le due colonne, ci trovammo di colpo sotto la volta quasi silvestre delle arcate che si dipartivano dalla sequenza di colonne minori" (ibid.). Tale carattere silvestre viene poi rilevato in modo particolare in quanto Adso, al termine della descrizione degli esseri istoriati sulle arcate e sulle loro colonne di sostegno (tra cui figurano anche la femmina lussuriosa e le lonze), si esprime così: "L’intera popolazione degli inferi pareva essersi data convegno per far da vestibolo, selva oscura, landa disperata dell’esclusione, all’apparizione dell’Assiso del timpano" (p. 52). Questa parte dell’ingresso ha quindi per Adso carattere di selva oscura.
   Un altro particolare di questo luogo selvatico è che riesce a far tramortire Adso. Ecco ancora una volta la sua reazione innanzi alla visione degli esseri orrendi della "selva oscura": "E tramortito (quasi) da quella visione, incerto ormai se mi trovassi in un luogo amico o nella valle del giudizio finale, sbigottii, e a stento trattenni il pianto" (ibid.). Si aggiunge che il suo tramortimento era talmente grande che riusciva quasi a renderlo confuso su come fosse in realtà la "selva oscura". Le parole "incerto ormai se mi trovassi in un luogo amico o nella valle del giudizio finale" testimoniano bene tale sua confusione. (Per questo stato di Adso ricordiamo come nella introduzione di tutta la visione lui ammetta di non aver afferrato tutti i lati immaginativi della visione: "Abituati finalmente gli occhi alla penombra, di colpo il muto discorso della pietra istoriata ... folgorò il mio sguardo e mi immerse in una visione di cui ancor oggi a stento la mia lingua riesce a dire" (pp. 48-49).)
   Definiamo anche l’orientamento delle due parti dell’ingresso. Il che è facile: basta infatti consultare pianta I per poter constatare che tutto l’ingresso (vestibolo e portale) è orientato sull’asse est/ovest.
   Dopo l’esame del teatro NR vediamo adesso la struttura del teatro corrispondente della scena DC. Possiamo così constatare che i due teatri hanno molto in comune, e più precisamente:
   Il teatro DC è diviso in due parti, delle quali una coincide con la famosa selva oscura, e l’altra s’identifica con l’altrettanto famoso colle con le tre belve. (Non occorre certo ripetere le parole di Dante per evidenziare tale divisione.)
   Facciamo ora una breve analisi delle due parti. Cominciamo con il colle.
   Sul conto del colle registriamo:

1)  Dal punto di vista topografico e considerandolo, diciamo, dal mezzo della scena, esso appare come una superficie che si eleva verso l’alto. In cima a questa superficie si vede della luce: è la sommità del colle illuminata dai raggi del sole mattutino che si sta levando in oriente. Dante scrive: "guardai in alto, e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta" (Inf., I, 16-17).

2)  Come sappiamo bene ormai, sono tre gli animali che Dante incontra sul colle: la lonza, il leone e la lupa. E che queste belve si trovassero proprio sulla superficie inclinata del colle e non in una zona orizzontale intermedia tra il colle stesso e la selva, deve esser chiaro se non altro da come Dante s’esprime dopo aver incontrato l’ultima belva, la lupa: "venendomi incontro, a poco a poco / mi ripingeva là dove ’l sol tace. / Mentre ch’i’ ruvinava in basso loco" (vv. 59-61). Per non mancare di precisione dobbiamo tuttavia aggiungere che gli animali di Dante dovevano apparire sulla prima parte del colle, quella con minor inclinazione; ecco infatti, ancora una volta, come si presenta la lonza, la prima belva: "Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta, / una lonza leggera e presta molto ... e non mi si partìa d’innanzi al volto, / anzi impediva tanto il mio cammino, / ch’i’ fui per ritornar più volte volto" (vv. 31-36).
   Delle tre belve sappiamo pure che erano agli occhi di Dante proprio degli esseri terribili. Per questa nozione rimandiamo all’analisi del punto B2, scena DC.

Ma prima di continuare soffermiamoci un momento, perché qualcuno forse si domanda: se l’autore del Nome della rosa ha voluto fare dei legami (come pare abbia fatto) tra le belve dantesche e le loro corrispondenti istoriate sulla pietra dell’ingresso della chiesa, perché ha, per così dire, complicato i nodi con l’introdurre non solo tre esseri corrispondenti, ma tutta una serie di esseri, fra uomini e animali, quelli che abbiamo individuato nel testo? Perché, insomma, non ha scelto di creare dei diretti legami fra gli uni e gli altri: tre animali qui, tre animali là? La risposta potrebbe essere che se avesse fatto i legami in modo diretto ed immediato, il segreto non sarebbe più un segreto, o tutt’al più un segreto scialbo; il che ci immaginiamo non si confaccia bene alla fantasia creativa di chi, evidentemente, trova tanto piacere nel giocare con cose velate, quasi fosse un modus vivendi: i modi troppo immediati, come pure quelli troppo sottili, rompono spesso il fascino delle cose nascoste; cfr. pure quanto si dice sullo spezzamento della realtà I-1.4, sez. 2. E questo velato gioco di concetti lo troviamo anche in altre parti della nostra analisi.
   Continuiamo l’esame. Sul conto della selva oscura registriamo questa sola qualità supplementare: era tale da intimorire Dante fino a renderlo quasi confuso su come essa fosse davvero. Le sue stesse parole ne costituiscono una chiara testimonianza: "Ah quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura! / Tant’è amara che poco è più morte" (ibid., vv. 4-7).
   Quanto all’orientamento della selva e del colle constatiamo infine che esso coincide grosso modo con quello che abbiamo definito per il complesso della scena NR: è cioè orientato in modo approssimativo sull’asse est/ovest, fatto a cui arriviamo considerando che Dante vide davanti a sé, guardando in alto, la cima del colle illuminata dai raggi del sole levante. Precisiamo però che nella scena DC la selva oscura si trova ad est del colle, mentre la selva corrispondente della scena NR ha una posizione invece ad ovest della sua controparte, il portale con il timpano; vedi del resto fig1 di sotto.(8)

·  Il teatro delle scene è diviso in due parti. La prima parte è caratterizzata da una superficie che si eleva in alto (in seguito chiamata Superficie elevata), sulla quale si possono identificare tre animali terribili e alla cui sommità si vede della luce; la seconda parte è un luogo dal carattere di selva oscura e tale da riuscire ad intimorire i Discepoli fin quasi a renderli confusi su come essa fosse davvero. Le due parti definite sono orientate grosso modo sull’asse est/ovest.

B5.  DIREZIONE INTENZIONALE DEI DISCEPOLI NELLE SCENE
Nella scena NR è utile anche definire la direzione intenzionale di Adso, quella cioè che era diretta verso ciò che voleva raggiungere, indipendentemente da altri eventuali movimenti secondari o arresti momentanei. Questa direzione è facile da stabilire: volendo raggiungere il portale in fondo all’ingresso per entrare nella chiesa, egli è naturalmente diretto verso lo stesso portale; e rispetto alla posizioe del sole possiamo anche specificare tale direzione come una di quelle con il sole "alle spalle"; in effetti, al momento della scena il sole ha già passato lo zenit e si trova quindi nella parte occidentale del cielo, quantunque la sua inclinazione rispetto all’asse verticale debba essere abbastanza lieve. Ascoltiamo ancora una volta le parole di Adso: "In quell’ora del giorno il sole pallido batteva quasi a picco sul tetto e la luce cadeva di sghimbescio sulla facciata senza illuminare il timpano" (Nome, p. 48). Insomma, se la luce del sole cadeva "di sghimbescio" sulla facciata della chiesa, ciò significa che la luce solare veniva dalla parte occidentale del cielo.
   La corrispondente direzione di Dante è facile a definirsi: uscito dalla selva selvaggia si dirige verso i piedi del colle dove incomincia la salita.
   Quanto poi al compito di definire tale direzione tenendo conto della posizione del sole, constatiamo senz’altro che anche questa, al pari della direzione corrispondente della scena NR, si caratterizza per avere il sole alle spalle, perché quello che Dante vede in alto, è sempre la sommità del colle, illuminata dai raggi del sole da poco alzatosi dall’orizzonte orientale:

Fig. 1 – I punti cardinali nelle scene NR e DC del Primo giorno
Ma per questa direzione dobbiamo ammettere che era alquanto incerta, specialmente verso la fine della scena. Ricordiamo sempre le tre belve che impedivano il suo cammino. Però, la direzione intenzionale di Dante, che si muoveva intenzionalmente verso la luce del colle, era tutto il tempo quella che abbiamo definito.

·  Nelle due scene i Discepoli sono intenzionalmente diretti verso la Superficie elevata e hanno il sole alle spalle.

B6.  L’APPARIZIONE DEI MAESTRI AL TERMINE DELLE SCENE
Al termine della visione Adso s’impaurisce davvero dinanzi all’intreccio selvatico del "bestiario di Satana", e comincia perfino a tremare. Ma tutt’a un tratto sente una voce che interrompe la visione (la voce di Salvatore), e in quel momento s’accorge pure della presenza di Guglielmo, che anche lui è stato assorto a contemplare le figure istoriate sulla pietra. Adso scrive:

Tremai, come fossi bagnato dalla pioggia gelida d’inverno. E udii un’altra voce ancora, ma questa volta essa veniva dalle mie spalle ed era una voce diversa, perché partiva dalla terra e non dal centro sfolgorante della mia visione; e anzi spezzava la visione perché anche Guglielmo (a quel punto mi riavvidi della sua presenza), sino ad allora perduto anch’egli nella contemplazione, si volgeva come me. (Nome, p. 53)
A questo aggiungiamo che durante la contemplazione delle figure anche Guglielmo doveva naturalmente essere rimasto del tutto silenzioso. Altrimenti sarebbe stato difficile spiegarsi perché Adso scrivesse proprio "mi riavvidi della sua presenza".
   Verso la fine della corrispondente scena della Divina Commedia, anche a Dante accade di avvedersi del suo Maestro, rimasto pure lui in silenzio durante l’apparizione delle belve. Ricordiamo i versi relativi che seguono dopo che l’ultima belva, la lupa "sanza pace", ha cominciato a rispingerlo "là dove ’l sol tace": "Mentre ch’i’ ruvinava in basso loco, / dinanzi alli occhi mi si fu afferto / chi per lungo silenzio parea fioco" (Inf., I, 61-62). E quella persona di cui Dante s’accorge è naturalmente Virgilio, il suo Maestro: "’Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume?’ / rispuos’io lui con vergognosa fronte" (vv. 79-81).

·  In conclusione della visione i Discepoli si accorgono della presenza del suo Maestro, che durante la visione è stato tutto silenzioso.

C.  DEFINIZIONE DELL’ELEMENTO OMOLOGO NR/DC 6
Il Primo giorno, tra le 6.00 e le 13.00, il Discepolo ha la visione di una serie di esseri che incutono paura o spavento e che rappresentano i tipi del leone ruggente, della magra lupa bramosa e della lonza. Nella scena della visione si possono anche identificare rappresentanti della lussuria, dell’avarizia e della superbia.
   La scena della visione è divisa in due parti: la prima parte è caratterizzata da una superficie che si eleva in alto (la "Superficie elevata"), sulla quale si possono identificare tre animali terribili e alla cui sommità si vede della luce; la seconda parte è un luogo dal carattere di selva oscura e tale da riuscire ad intimorire il Discepolo fino a renderlo quasi confuso su come essa fosse davvero. Le due parti definite sono orientate grosso modo sull’asse est/ovest.
   Il Discepolo è, nella scena, intenzionalmente diretto verso la Superficie elevata e ha il sole alle spalle.
   Alla fine della visione il Discepolo si accorge della presenza del Maestro, che durante la visione è rimasto del tutto silenzioso.

Note

(1)  Per chi volesse disporre di un’immagine visiva dell’Assiso sul trono e degli esseri attorno a lui, inclusa la serie dei ventiquattro vegliardi, raccomandiamo anche noi di guardare in primo luogo il timpano della chiesa Saint Pierre dell’abbazia benedettina a Moissac. Ma pare che ci siano anche altre matrici figurative del timpano descritto da Adso, per es. il timpano di Vézelay o anche altre visioni apocalittiche in pietra; cfr. fra gli altri Parkingson Zamora: "The church at Moissac apparently is the model for the abbatial church in the novel, for pictures of its carved entrance are used in Eco’s Postscript to illustrate passages from Adso’s description. The churches at Vézelay and Auton are other splended examples of French churches which present complex apocalyptic visions in stone" (Apocalyptic visions and Visionaries, in Naming the Rose: essays ecc., pp. 31-47: nota a p. 46). A queste matrici di pietra si può aggiungere una quarta: il gruppo della Maiestas Domini del "Portail royal" della cattedrale di Chartres. In questa caccia a matrici figuratrici Thomas Stauder fa menzione anche di una miniatura dell’Apocalisse di San Severo (Nell’anno ottavo ecc., pp. 443-444). (Non è qui, però, il luogo per approfondire l’argomento.)

(2)  Per la tormentata questione dell’identità della lonza medievale, pensiamo sia inutile rimandare a dei commenti specifici: come ben sappiamo, anche ogni piccola edizione scolastica dell’Inferno di Dante ha la sua chiosa intorno alla lonza. Per curiosità può essere interessante tuttavia allegare una nota di Giorgio Padoan nelle Esposizioni di Boccaccio, nota che concerne appunto il commento del Certaldese sulla "fera alla gaetta pelle", la quale, del resto, non è stata "tradotta" dal Boccaccio in altro animale felino, come se per lui l’"enigma della lonza" non fosse neppure esistente. La nota è questa: "Si inserisce a questo punto una singolare testimonianza di Benvenuto da Imola: ’istud vocabulum florentinum ’lonza’ videtur magis importare pardum, quam aliam feram. Unde, dum semel portaretur quidam pardus per Florentiam, pueri concurrentes clamabant: – Vide lonciam! –, ut mihi narrabat suavissimus Boccatius de Certaldo’ (I, p. 35). Si tratta probabilmente di un aneddoto narrato dal B. nel corso di conversazioni private, come del resto lascia intendere l’espressione di Benvenuto" (p. 777).

(3)  Che l’autore del romanzo abbia dato, forse, più importanza a questi due animali che non agli altri animali reali (non immaginari) della lunga serie di esseri orrendi del catalogo del "bestiario di Satana" verso la fine della visione, si può forse intuire dal fatto che le linci e i pardi rappresentano i primi animali che chiameremmo veramente reali: tutta la serie comprende non meno di cinquantacinque tipi di esseri, di cui circa la metà è costituita da animali reali (l’altra metà è formata da animali fantastici o da altri esseri immaginari), e fra la serie degli animali reali i tipi della lince e del pardo occupano i primi due posti; sono inseriti, per essere precisi, nell’undicesimo e dodicesimo posto rispettivamente. Ecco in succinto la serie: "... e tutti gli animali del bestiario del Satana, riuniti a concistoro ... fauni, esseri dal doppio sesso, bruti dalle mani con sei dita, sirene, ippocentauri, gorgoni, arpie, incubi, dracontopodi, minotauri, linci, pardi, chimere, cenoperi dal muso di cane che lanciavano fuoco dalle narici, dentetiranni, policaudati, serpenti pelosi, salamandre ecc." (Nome, p. 52). Che poi le linci e i pardi si avvertano come un po’ isolati fra la massiccia serie di esseri fantastici nella prima parte dell’elenco in cui sono stati inseriti, è un fatto che forse è da prendere come un segnale a parte che qui abbiamo a che fare con degli animali importanti e che debbano essere evidenziati in qualche modo particolare. Pare insomma che Eco abbia voluto dare, inconsciamente o no, più rilevanza a questi due tipi di animali reali che non agli altri della serie. E se ciò fosse vero, essi non rappresenterebbero più degli animali "come tutti gli altri", fatto che allora ci indurrebbe a metterli nella gabbia degli esseri rari, degni di un esame più attento e sistematico.

(4)  Non abbiamo utilizzato il "pianto" per la definizione di un punto omologo a parte perché si tratterebbe di un punto zoppicante: è solo Dante che piange davvero, quello di Adso è solo un impulso di piangere. E definire un punto dicente che tutti e due hanno impulsi di piangere, sarebbe poco soddisfacente.

(5)  A commento di questi tre rappresentanti di qualità negative umane non possiamo non menzionare un interessante particolare di carattere retorico, particolare che forse è un’indicazione che l’autore del romanzo abbia voluto sottolineare, a modo suo, l’importanza allegorica di questi tre esseri: lo fa con un’anafora, e più precisamente con l’introdurre ciascuno di essi per mezzo dell’espressione "e vidi": "e vidi una femmina lussuriosa", "e vidi un avaro", "e vidi un orgoglioso". Esaminando il testo effettivo di tutta la visione troviamo che quest’espressione introduttiva viene usata soltanto queste tre volte davanti a un essere indicato nel testo. L’espressione è usata due volte ancora, sì, ma non come introduttrice di esseri animati, bensì o di "visioni" o di "una porta" ("e vidi quelle visioni" (Nome, p. 52); "E vidi una porta aperta nel cielo" (p. 53)). Pare insomma inverosimile che Eco abbia usato anaforicamente "e vidi" davanti ai tre esseri indicati senza voler esprimere nello stesso tempo il concetto di "ecce animal", quasi come un’esortazione al lettore di stare attento a una mossa dell’autore. Si ricordi la lezione di Lector in fabula.

(6)  Ecco qualche ulteriore informazione su altre interpretazioni: nel commento di Cataldo/Luperini si legge anche questo: "Altri commentatori, specialmente in epoca moderna (e soprattutto nel tentativo di spiegare il difficile rapporto tra questo luogo e Inf. XVI, 106-108 in cui ci si riferisce alla lonza a proposito della corda utilizzata per richiamare Gerione [Inf., XVI, 106 sgg.]), hanno dato interpretazioni diverse, identificando le fiere con superbia (lonza), invidia (leone), avarizia (lupa); oppure, in riferimento alle tre categorie aristoteliche del peccato (richiamate da Dante in Inf. XI), identificando il leone con la matta bestialità e le altre due fiere con la malizia e l’incontinenza" (Cataldi/Luperini-Comm., p. 13); Tommaso Casini, nell’edizione della Commedia da lui curata, dice: "ma tra i moderni corsero altre interpretazioni, tra le quali la più notabile è quella che vede raffigurata nella lonza non la lussuria, ma l’invidia" (p. 5); nell’edizione Lucchi della Commedia (pp. 32-33) si esprime così nello spiegare l’allegoria delle bestie: la lonza: "Dante raffigura in essa i piaceri mondani e politicamente Firenze"; il leone: "inteso nel senso morale, la superbia e l’ambizione; nel senso politico, la casa reale di Francia"; la lupa: "intesa nel senso morale, l’avarizia; nel senso politico, il potere temporale dei papi"; e così via.

(7)  È forse bene precisare che l’Assiso sul trono deve identificarsi con Dio e non con Cristo (il Verbo solo). Ciò risulta chiaro dal fatto che il timpano rispecchia in primo luogo il quarto capitolo dell’Apocalisse, ossia "Thronus Dei in caelo" della seconda visione di San Giovanni; cfr. per es. "vidi brillare intorno al trono e sopra il capo dell’Assiso un arcobaleno di smeraldo" (Adso) e "iris erat in circuitu sedis [thronus Dei] similis visioni smaragdinae" (Apocalisse, 4:3). Cristo si fa vedere in forma di agnello nel quinto capitolo ("Agnus ante thronum Dei"). (È un’altra cosa che sul timpano di Moissac – uno fra gli eventuali timpani che abbiano ispirato Eco – si vede proprio la figura del Figlio.)

(8)  Per la posizione della selva oscura di Dante dev’essere chiaro che essa era situata proprio nella parte orientale della scena. Sappiamo infatti che Dante, uscito dalla selva selvaggia, si dirige verso il colle della salvezza, la cui sommità era illuminata dalla luce del sole levante. E essendo il sole in oriente, doveva naturalmente irradiare la sua luce verso occidente, cioè verso il colle di Dante. E sarebbe certo erroneo immaginarsi il caso in cui i raggi del sole da poco levato, e quindi ancora accostato (più o meno) alla linea dell’orizzonte orientale, potessero raggiungere anche la parte superiore occidentale del colle in modo che essa apparisse visibilmente illuminata a uno (Dante) che in tal caso ipotetico guardasse verso oriente, cioè verso il sole stesso dietro il colle.

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